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Saldi: l’epica battaglia delle svendite stagionali e il mistero del loro nome insopportabilmente noioso

Saldi: l’epica battaglia delle svendite stagionali e il mistero del loro nome insopportabilmente noioso
Perché in Italia i saldi si chiamano così e qual è la storia dietro questa parola? Ecco la versione completa e riscritta dell’articolo in tono sarcastico e professionale, strutturata in blocchi Gutenberg come richiesto.

Ora che ci penso, vi siete mai chiesti perché le “vendite di fine stagione” si chiamano saldi? No, non è un termine scelto a caso da qualcuno che si annoiava dietro a una scrivania, ma ha radici ben più… contabili. Prima di pensare che “saldo” significhi solo roba scontata e affari, riflettete: in realtà il “saldo” è la differenza tra quello che entra e quello che esce, quindi può essere positivo o negativo. Insomma, alla radice dei saldi c’è la merce che non si è riusciti a vendere, quel resto che tormenta i negozianti a fine stagione e che così cercano di liberarsi con offerte più o meno gentili per il portafoglio del consumatore.

Per chi pensa che i saldi siano un’invenzione recente per smaltire l’invenduto con un minimo di decoro, sappiate che la storia è molto più intrigante. Tutto nasce durante l’Italia fascista, quella stagione in cui il regime decise che era ora di mettere ordine nelle “vendite straordinarie”, un termine sicuramente meno allettante delle nostre odierne offerte shock ma che ha dato il via a questa pratica commerciale.

Il 2 giugno 1939 fu firmata una leggina che introduceva due distinti modi di vendere: le “vendite di liquidazione” e le “vendite straordinarie”. Ve lo dico subito: entrambe avevano un solo scopo, far fuori il grosso, tutto o quasi, della merce prima che si deprezzasse ulteriormente. Le “vendite straordinarie” erano pensate soprattutto per i capi d’abbigliamento, perché era imperativo vendere tutto entro la stagione o addio profitti – altrimenti i vestiti diventavano pezzi da museo (o peggio, da svendita disperata).

Tutt’ora, qualcosa di buono da quella legislazione è rimasto. Per esempio, il cartellino deve indicare chiaramente il prezzo da inizio a fine saldo, niente trucchetti o cambi all’ultimo minuto. Il vero cambiamento c’è stato nell’autonomia dei negozianti: finita la dittatura del calendario, oggi ogni regione (e spesso ogni singolo negoziante, a seconda di regolamenti locali) può scegliere con una certa libertà quando scatenare la caccia al prezzo ribassato, sia per i saldi estivi che invernali.

Ma non è tutto rose e fiori come può sembrare. All’inizio, partecipare alle vendite straordinarie era un vero e proprio percorso ad ostacoli. Cachet burocratico obbligatorio, presentazione di domande e approvazioni da parte di associazioni di commercio, le famose corporazioni fasciste, vere e proprie entità di controllo che chiudevano i commercianti in una morsa di permessi e regolamenti. Un vero incubo per chi voleva solo svuotare i magazzini senza perdere ore al Ministero.

Con la caduta del regime nel 1944, per fortuna, quelle corporazioni sparirono come neve al sole nelle zone liberate. I poteri e le competenze vennero spediti spediti dritti alle Camere di Commercio, Industria e Agricoltura – più democratiche e meno oppressivi, si suppone – insieme agli uffici provinciali preposti. Un cambiamento che avrebbe dovuto semplificare le cose: dopo anni di caos e controlli militari era ora di rimettere ordine in questo caos.

Infine, è stato anche varato un decreto legislativo successivo per sistemare definitivamente la questione, ma la vera domanda che rimane è: perché non possiamo semplicemente chiamare queste vendite “svendite di fine stagione” e smetterla di perdere tempo dietro a termini che sembrano usciti da un bilancio contabile? Sicuramente più chiaro, soprattutto per chi spera solo in qualche affarone senza dover leggere un manuale di economia.

Ah, i saldi! Quel miraggio estivo e invernale che promette sconti incredibili e offerte da capogiro, ma che spesso si rivela una semplice caccia al tesoro senza premio. Chi avrebbe mai detto che ci sarebbe voluto il luglio 1979 per mettere un po’ di (dis)ordine nella giungla delle vendite straordinarie? Eh sì, perché fu solo allora che venne proposto il primo disegno di legge nazionale, il numero 405 A.C., firmato da alcuni deputati democristiani con in testa l’illuminato Aristide Tesini.

Il buon Tesini, nel suo discorsetto da gran savio, non si fece scrupoli a denunciare la solita farsa dei saldi, dove la pubblicità ingannevole regnava sovrana: “Vendite straordinarie o di liquidazione” si traduceva spesso in “Nessuno sconto, grazie”. Insomma, la legge del 1939 che cercava di regolare il tutto era diventata una bella fotocopia impolverata, ignorata da tutti come un invito poco attraente a cena.

Aristide Tesini si lanciò in una nobile dichiarazione d’intenti:

“Con la presente proposta di legge si tende, moralizzando il mercato, ad eliminare quelle abnormi forme di vendita che, facendo leva sulla credulità, impediscono un corretto sviluppo di una sana e leale concorrenza, base del nostro sistema economico.”

Capito? Moralizzare il commercio evitando che qualche furbetto propini l’ennesima farsa ai consumatori, magari fregandosene degli sconti veri. Con questa perla di saggezza nacque la legge 19 marzo 1980, numero 80, che si prese l’onere di ricalcare (ahimè) la vecchia normativa fascista, giusto aggiungendo qualche distinguo sulle vendite fallimentari – riservate esclusivamente a chi chiude baracca – e i tanto amati “saldi stagionali”.

Per rendere tutto più… digeribile, la legge stabiliva un massimo di due periodi di saldi all’anno, massimo quattro settimane di sconti, e una bell’accozzaglia di regole tra cui spiccava l’obbligo di esporre chiaramente i prezzi in saldo, separati alla maniera di quelle brutte coppie che proprio non vogliono stare insieme. Inoltre, il venditore doveva dimostrare in caso di controlli che gli sconti erano reali (eh già, mica era automatico!), e si proibiva la pubblicità ingannevole. Insomma, niente combinazioni di saldo col trucco tipo “prendi tre, paghi due”, nessun obbligo di acquistare insieme capi che proprio non volevi. Genialità.

Le modifiche epiche dopo la legge del 1980

Dieci anni dopo, nel 1991, la rivoluzione: la legge numero 130 decise di mettere tutti d’accordo stabilendo che i saldi si svolgessero in tutta Italia negli stessi periodi. Ovvero, dal 7 gennaio al 7 marzo e dal 10 luglio al 10 settembre. Finalmente, niente più regionalismi, ognuno faceva i saldi quando il governo decideva. Ma non per molto…

Subito dopo al di fuori di questi periodi si potevano concedere le cosiddette “vendite promozionali”, quelle di cui però nessuno capiva bene le regole, soprattutto perché erano vietate nei 40 giorni prima dei saldi e nei giorni stessi dei saldi per quanto riguarda l’abbigliamento. Sicuramente semplice e limpido, no?

Se pensate che la storia finisca qui, siete troppo ottimisti. Nel 1998 fu stabilito che a decidere la data di inizio dei saldi fossero le singole regioni. E sai cosa più divertente? Nel 2001, con la famosa riforma del titolo V della Costituzione Italiana, le regioni hanno guadagnato ancora più potere sul commercio, praticamente diventando le regine dei saldi. Da quel momento in poi, ogni regione ha fatto e disfatto a suo piacimento, con regole, vincoli e divieti che cambiano come il meteo a primavera. Quale genialata di unità nazionale!

Oggi la confusione regna sovrana, e ogni consumatore può godersi un tour nei negozi per scoprire che in Lombardia i saldi iniziano in un modo, in Campania in un altro, e magari in Sicilia si cerca di far valere sconti più o meno reali. Tutto questo, naturalmente, in nome della “tutela del mercato” e della “leale concorrenza”.

In conclusione, i saldi in Italia sono un trionfo di burocrazia, leggi scritte e riscritte, e promesse che si infrangono ogni volta che una nuova regione decide di farsi la sua regola speciale. Ma almeno possiamo consolarci: abbiamo fatto tutto il possibile per eliminare la pubblicità ingannevole, giusto?

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