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Finalmente un atto biotech: l’innovazione che aspetta una legge su misura (o qualcosa del genere)

Finalmente un atto biotech: l’innovazione che aspetta una legge su misura (o qualcosa del genere)

Il potenziale delle biotecnologie europee è ancora una promessa poco mantenuta, soffocata sotto montagne di burocrazia, norme arcane e la fatica di trasformare l’innovazione in risultati concreti. Le imprese arrancano, incapaci di crescere o di imporsi sul mercato con la forza che meriterebbero, e qualcuno finalmente ha pensato di buttare giù una legge apposita: il fatidico Biotech Act, concepito per rilanciare l’innovazione, accelerare la transizione verde e affermare l’indipendenza strategica. Mancherebbe solo che tutto questo si traducesse in fatti.

Il quadro normativo che si vorrebbe adottare è inserito in un complicato puzzle di iniziative europee, dalla strategia sulle scienze della vita alla bioeconomia, fino al Clean Industrial Deal. Nel frattempo, molti Paesi europei hanno già montato le loro strategie nazionali e regalato incentivi per favorire il settore, lasciando un po’ indietro l’Italia, che sembra arrancare in questa corsa.

Adolfo Urso, ministro delle Imprese e del Made in Italy, nella sua lettera inviata all’Assemblea di Assobiotec a Roma, ha sottolineato giustamente la necessità di sveltire i tempi e di guardare con occhi più attenti a tutte le potenzialità che il nostro Paese ancora non sfrutta. Parole sante, visto che la normativa sembra spesso un labirinto senza uscita.

Nel panorama attuale, Urso cita alcuni strumenti già messi in campo, come il Programma nazionale ricerca, innovazione e competitività 2021-27 e l’Ipcei, ovvero quei grandi progetti di interesse europeo che, guarda caso, puntano proprio sulle biotecnologie. Questi sarebbero i pilastri per sostenere ricerca e sviluppo, oltre a lanciare nuove tecnologie “di frontiera” – parola alla moda, ovviamente.

Ma non basta. Perché la solita storia della transizione verde e digitale non si esaurisca nel classico verboso vuoto a perdere, servono incentivi concreti, semplificazioni amministrative che non facciano impazzire gli imprenditori e agevolazioni fiscali che non arrivino solo sotto forma di promesse lontane anni luce.

Secondo Urso, tutto ciò dovrebbe far parte di un “sforzo strategico unitario” degno di questo nome, che porti finalmente a quella maturità industriale che da anni si invoca ma che, francamente, sembra sempre sfuggire. Ve lo immaginate? Nuove occasioni di investimento e di lavoro qualificato che, chissà, forse un giorno potrebbero esistere davvero anche qui da noi.

E per finire in bellezza, il ministro si lancia sull’ultimo cavallo di battaglia: le competenze. Perché, ovviamente, il problema numero uno è che non ci sono abbastanza cervelli in giro e la forza lavoro langue. La sfida demografica non è un’opzione ma una condanna, e quindi bisogna investire – parola che fa sempre bene – sulla formazione, sulla riqualificazione e sull’attrazione di talenti, quei magici esseri che, forse, potrebbero finalmente risollevare le sorti di un settore che ha sì grandi potenzialità, ma che evidentemente ha anche bisogno di una mano robusta e di meno chiacchiere.

Insomma, un appello a una strategia chiara, condivisa e tempestiva – roba che sembra una formula magica. Se tutto funziona come dice Urso, forse, dico forse, l’Italia potrà non solo rafforzare la sua posizione nel mondo, ma anche costruire un futuro più verde, più avanzato e, perché no, un po’ meno frustante per chi lavora in questo affascinante ma complicato settore.

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