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Blue economy italiana: scommessa da 216,7 miliardi o solo un modo elegante per chiamare i nostri soliti problemi?

Con ben 232.841 imprese e oltre un milione di occupati, l’economia legata al mare in Italia non è esattamente uno sparuto comparto marginale. Produce un valore aggiunto diretto di 76,6 miliardi di euro, ma attenzione: se si considerano gli effetti a catena sull’intero sistema economico, si arriva a un’impressionante cifra di 216,7 miliardi, che corrisponde all’11,3% del Pil nazionale. Questi numeri emergono dal XIII Rapporto Nazionale sull’Economia del Mare, presentato durante il 4° Summit Nazionale del Blue Forum a Roma.
Il settore marino non solo cresce, ma fa il ludibrio di molte altre settori nazionali che arrancano. Il valore aggiunto diretto segna un +15,9%, praticamente più del doppio rispetto al modesto 6,6% della crescita media italiana. La quota che questo comparto occupa nel valore aggiunto complessivo aumenta di oltre un punto percentuale in un solo anno. Il moltiplicatore economico si mantiene stabile a 1,8, ovvero per ogni euro speso nelle attività marine se ne generano altri 1,8 in tutta l’economia: un’inezia per tanti settori, ma un vero e proprio miracolo per altri. Gli occupati crescono del 7,7%, più di quattro volte la media nazionale ferma a un timido 1,9%. Tra il 2022 e il 2024 le imprese del settore aumentano del 2%, mentre il resto dell’economia fa marcia indietro con un -2,4%.
Adolfo Urso, ministro delle Imprese e del Made in Italy, ha celebrato i numeri:
“Il rapporto svela potenzialità enormi del nostro Paese, che potrebbero finalmente dare corpo a una blue economy trainante, capace di sostenere il sistema economico nazionale.”
Non solo il settore marino si espande, ma lo fa con una vivacità imprenditoriale che fa impallidire molti altri comparti. Le imprese, infatti, aumentano quando l’intera base produttiva italiana si contrae. La blue economy si distingue anche per la sua inclusività territoriale: al Sud incide per il 15,5% sul valore aggiunto totale, superando di ben quattro punti percentuali la media nazionale, nonostante la capacità inferiore di attivare le filiere produttive correlate.
Andrea Prete, presidente di Unioncamere, non ha perso occasione di sottolineare la faccia meno brillante del quadro esposto:
“Nonostante questi risultati, il settore soffre ancora in modo evidente nel reperire forza lavoro, soprattutto per competenze tecniche e trasversali.”
Ecco quindi il paradosso: l’economia del mare, che dovrebbe rappresentare una risorsa di eccellenza e innovazione per la Italia, segna una crescita esuberante e molto più sana rispetto alla media nazionale, ma il mercato del lavoro si impunta e storce il naso di fronte a una domanda crescente di figure qualificate. Dato che ci si aspetterebbe un settore così vivo e strategico capace di attrarre mano d’opera e investimenti, il ritardo nella formazione è un ostacolo che stride da tutte le parti.
Nonostante le fanfare, la blue economy italiana resta un mondo di contraddizioni: da un lato un comparto che macina numeri da primo della classe, dall’altro una scuola e un sistema lavoro incapaci di starle dietro. E così il mare, tanto invocato come risorsa inesauribile, resta anche metafora di un’Italia che ragiona ancora con vecchie mappe economiche e sociali, incapace di navigare verso un futuro che già bussa alla porta.
La solita pietra miliare del sistema camerale, sempre occupata a rafforzare la catena del settore marittimo e a sviluppare chissà quali risorse umane miracolose.
Giovanni Acampora, presidente di Assonautica Italiana, Si.Camera e Camera di Commercio Frosinone Latina, si vanta così: il loro rapporto nazionale è ormai il Vangelo del sistema mare italiano, perché analizza con precisione svizzera il valore e il peso dell’economia blu del nostro Paese. E, naturalmente, lo mette generosamente a disposizione di tutti: operatori del settore, istituzioni, associazioni, imprese e, ciliegina sulla torta, l’intero cluster del mare. Un documento imprescindibile per dare gloria alla Blue Economy italiana e per farla sembrare la regina del Mediterraneo, il tutto in linea con il super ambizioso Piano del Mare 2026-2028, che, senza dubbio, cambierà le sorti del mondo marino.
Dal canto suo, Gaetano Fausto Esposito, il direttore generale del Centro Studi Tagliacarne, non perde tempo a sganciare il dato clou: “abbiamo toccato il picco più alto dell’economia del mare dal 2019”. Ma non è finita: la blue economy sembra il nuovo motore dell’Italia, con un contributo che passa dal 5,8% del 2021 all’attuale 9,5%. Roba da far girare la testa, no? Peccato, però, che il nostro caro Gaetano tenga a ricordare, come in un’epica moraletta, che in questo clima economico di “forte incertezza”, un ulteriore aumento del 30% potrebbe tradursi in una perdita da 1,2 miliardi. In pratica, il sogno blu rischia di trasformarsi in un incubo più che reale per turismo e logistica.
Non poteva mancare l’intervento di Antonello Testa, il Coordinatore dell’Osservatorio Nazionale sull’Economia del Mare OsserMare, che si professa quasi un veggente: l’economia del mare italiana continua a crescere senza freni, superando i 216 miliardi di euro in valore aggiunto, ovvero il 11,3% del PIL. Insomma, siamo imbattibili. O almeno così ci piace raccontare. Interessante notare, però, che il solito EU Blue Economy Report 2025 ci piazza appena al quarto posto in Europa, dietro a Germania, Spagna e Francia, quando si guardano criteri diversi. Ma niente paura, la vera sfida italiana è quella di avere una “piena conoscenza” del mare e della sua evoluzione: mica cosa da poco, no? E qui entra in campo la coppia formata dal Centro Studi delle Camere di commercio G. Tagliacarne – Unioncamere, che da più di tredici anni svolge la solita attività da santi custodi del mare.