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Gucci in crisi, l’Italia esulta: il crollo del lusso tra passerelle superflue e un’identità perduta

C’era una volta Gucci, simbolo di eccellenza, creatività, lusso sfacciato. Oggi resta un marchio che perde il 27% di valore e un Paese che riesce persino a farsene una ragione. Secondo l’ultima analisi di Brand Finance, l’ex stella del made in Italy è in caduta libera. E non è l’unica. L’intera moda italiana si trascina dietro una perdita del 9%: altro che passerelle, qui si sfila solo verso il baratro.
L’Italia del lusso non brilla più, si spegne in silenzio
Non stiamo parlando solo di numeri. Stiamo parlando del crollo clamoroso di un’identità culturale che ha fatto scuola nel mondo. Gucci, un tempo sinonimo di visione e stile, oggi appare come un dinosauro stanco, incapace di parlare ai nuovi pubblici, mentre i vertici del marchio si perdono in collezioni sempre più confuse, tra strategia evanescente e marketing delirante.
Il colpo è doppio: 27% in meno per Gucci, e una perdita generale del 9% nel settore moda. Tradotto: fallimento collettivo travestito da eleganza. Ma tranquilli, continuano a fare sfilate, tanto per giustificare stipendi da favola e un’arroganza che sfiora la comicità.
Sfilano le giacche, ma non le idee
Le maison italiane, blindate nel loro mondo autoreferenziale, continuano a investire milioni in show e influencer, ignorando il fatto che il pubblico chiede autenticità, visione, e non l’ennesima borsa col logo gigante. Il lusso si è trasformato in una caricatura di se stesso. E mentre Parigi e Seul innovano davvero, Milano resta a guardare, cullandosi nei soliti nomi, nelle solite facce, nei soliti errori.
Quando l’“heritage” diventa zavorra
L’ossessione per la tradizione è diventata una scusa perfetta per evitare qualsiasi rischio. Gucci, Prada, Dolce & Gabbana: tutti paralizzati dalla paura di perdere la loro “identità”, senza accorgersi che l’hanno già persa. Il risultato? Un sistema che si autocelebra mentre affonda, incapace di leggere un mondo che cambia a velocità doppia rispetto alle sue lente, costosissime collezioni.
I creativi spariscono, restano solo i manager
Nel frattempo, i veri creativi vengono allontanati, sostituiti da manager ossessionati da KPI, target e engagement rate. Il prodotto? Freddo, scollegato, incapace di emozionare. Gucci ne è l’esempio più lampante: da innovatore a clone sbiadito. E tutto questo mentre la concorrenza globale — soprattutto asiatica — ride, prende appunti e passa all’incasso.
Storie di frustrazione tra chi vive il disastro
Parlare con chi lavora nel settore è come ascoltare un requiem. Stilisti freelance sottopagati, giovani talenti ignorati, fornitori messi in ginocchio da richieste ridicole e pagamenti posticipati. “Vogliono il lusso a prezzo da discount”, racconta una ex designer licenziata con una mail. E intanto le grandi firme fingono che vada tutto bene, tra party esclusivi e finti sorrisi.
Un sistema che mente anche a se stesso
L’ipocrisia raggiunge livelli d’arte: si parla di sostenibilità mentre si bruciano tonnellate di invenduto, si celebrano le donne mentre ai vertici restano sempre gli stessi uomini, si invoca l’innovazione mentre si copia la concorrenza. Il tutto condito da una narrazione tossica che vuole farci credere che “è solo un momento difficile”. Certo. Da almeno dieci anni.
Possibili soluzioni (se qualcuno si svegliasse)
- Dare spazio ai giovani veri, non agli amici di amici.
- Smantellare il culto dell’apparenza per tornare al contenuto.
- Liberarsi dei dinosauri che da vent’anni fanno gli stessi abiti.
- Investire in visione, non in yacht e afterparty.
Ma tranquilli, non lo farà nessuno. Perché nel mondo del lusso italiano, la forma ha sempre ucciso la sostanza.