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Assolavoro formazione scopre che la maggior parte delle aziende preferisce pagare da sé i corsi: manco un centesimo regalato!

Solo il 36% degli adulti italiani si forma: un divario siderale con l’Europa e scarso supporto da imprese e Stato

Basta uno sguardo ai numeri per mettersi le mani nei capelli: solo il 35,7% degli adulti tra i 25 e i 64 anni in Italia si impegna in percorsi di aggiornamento o formazione, che siano formali o informali. Se lo confrontiamo con la media europea, questo dato fa sembrare il Belpaese una specie in via d’estinzione formativa, con un divario abbondante di undici punti percentuali.

Se pensavate che almeno i giovani si salvassero, vi sbagliate di grosso. Tra i 18 e i 24 anni la partecipazione italiana è ferma al 70%, mentre la media Ue danza invece tutta intorno al 79,8%. Ma i più sfortunati, o forse gli ignorati dal sistema, sono i disoccupati: appena l’11,9% di loro riesce a frequentare corsi legati al lavoro, mentre in Francia il dato raddoppia quasi, toccando il 28,9%.

Su un totale di oltre 15 milioni di lavoratori dipendenti, la maggioranza silenziosa—parliamo di 11,8 milioni—non ha partecipato ad alcun corso di formazione tra il 2022 e il 2023. Vi chiederete perché, ecco la risposta: il 78% di chi non si forma dice semplicemente di non averne bisogno. Sarà forse una di quelle epocali illustrazioni di “se non si vede, non esiste”? Il dato peggiora ancora tra gli uomini (81,7%), mentre le donne, più pragmatiche, chiamano in causa anche ragioni personali.

Ah, ma non è finita: un pentimento c’è. Il 20,3% ammette di aver voluto frequentare, ma impegni organizzativi, problemi economici o familiari hanno fatto il resto. In tutto ciò, l’assurdo è che in Italia la formazione resta roba da autofinanziarsi: è soprattutto individuale la responsabilità di aggiornarsi, anziché un diritto garantito da datori di lavoro o dallo Stato, a differenza di altri paesi europei sviluppati e con sistemi più lungimiranti.

Che dire delle aziende? Ecco un altro capolavoro italian style: il 76,8% delle imprese mette mano al proprio portafoglio per formare dipendenti, e nelle microimprese (quelle microscopiche che vanno da 1 a 9 addetti) si arriva addirittura all’81,4%. I fondi interprofessionali, invece, godono di scarsissima popolarità, impiegati solo nel 15,4% dei casi, mentre i già poco fortunati fondi europei strutturali (6,1%) e le agevolazioni fiscali (5%) languono per la mancata informazione e la burocrazia esasperata.

Quando si dice ecosistema della formazione: un sistema mozzafiato per la sua frammentazione e lentezza burocratica che spaventa in particolare chi vorrebbe fare le cose per bene ma non ha risorse o capacità per reggere la fatica amministrativa. È proprio questa farraginosità un fattore che mantiene “sano e salvo” il divario formativo italiano.

Secondo uno studio realizzato da un osservatorio nazionale di settore, il mercato della formazione professionale per adulti ha generato nel 2022 un fatturato di oltre 3,2 miliardi di euro. Un dato che da solo potrebbe forse giustificare la sopravvivenza di questa industria del saper fare e dell’aggiornamento. Ma come dire, un mercato così ricco eppure così incapace di intercettare l’ampia domanda potenziale, soprattutto da parte dei lavoratori più fragili.

Detto questo, tra chi si riunisce a parlare di formazione emergono le solite figure: professori universitari che snocciolano dati, rappresentanti ministeriali e associazioni di settore che promettono una rivoluzione imminente. Il problema? Nulla di concreto finora. D’altronde, in Italia la formazione continua a navigare in uno scialbo mare di procrastinazioni e responsabilità diluite: non è colpa mia, ma nemmeno colpa tua, semplicemente nessuno vuole prendersi il peso di cambiare davvero le cose.

In conclusione, si sorride amaramente di fronte a un quadro in cui la formazione è vista come un hobby individuale, finanziata più di tasca propria che da istituzioni e imprenditori, un lusso che pochi si possono permettere. Intanto Europa guarda dall’alto, mentre qui si continua a litigare su chi deve fare cosa. E così l’aggiornamento resta un optional per pochi eletti o per chi ha tempo e denaro da spendere, mentre gli altri si adattano come possono a un mercato del lavoro sempre più crudele e selettivo.

Lombardia e il Lazio, con Milano e Roma che si spartiscono la scena, seguite a ruota da Torino, Bologna, Napoli e Padova. Come sempre, pochi mangiano tutto e molti si accontentano delle briciole.

Ma tranquilli, la propaganda del “siamo più bravi della media europea” non manca mai. Il 68,9% delle imprese italiane con oltre dieci dipendenti ha deciso di fare i compiti e attivare percorsi di formazione continua tra il 2022 e il 2023. Un dato che ci fa sentire campioni, visto che siamo appena sopra la media Ue del 67,4%. Peccato che Germania (77,2%), Francia (75,9%) e Spagna (73,2%) ci guardino un po’ dall’alto in basso, ridacchiando.

In termini di numeri assoluti, più di 804mila imprese hanno offerto qualche opportunità formativa ai loro dipendenti, di cui 384mila con corsi strutturati e le altre con il mitico “on the job” e l’onnipresente affiancamento. Una frazione infinitesimale della grandiosità alla quale vorrebbero farci credere, ma che almeno dimostra una spontanea consapevolezza: la formazione è un tassello fondamentale per stare a galla in un mondo alle prese con intelligenza artificiale, transizione green e – ovviamente – gli squilibri demografici, cioè i giovani che scappano e i vecchi che contano sempre di più.

Se il ruolo delle imprese è finalmente riconosciuto, specialmente nei settori a più alta tecnologia (leggi chimica, farmaceutica, public utilities e Ict), la partecipazione concreta dei lavoratori rimane un vero pasticcio degno di un film tragicomico. Ma niente paura, ci pensa Agostino Di Maio, presidente di Assolavoro Formazione, a sollevarci il morale:

“La formazione mirata che tenga conto delle reali esigenze delle imprese e dell’evolversi del mondo del lavoro è l’unico vero motore per il futuro, sia delle singole persone che del sistema Paese. Ogni euro investito bene nella formazione genera un valore doppio o triplo, e arriva addirittura a valere fino a sette volte nel caso dei giovani.”

Peccato che poi quella formazione eccellente resti spesso un miraggio burocratico senza sostanza, come lui stesso ammette candidamente:

“Occorre mantenere alta la qualità della formazione erogata, abbandonando quell’approccio talvolta eccessivamente burocratico, fine a se stesso e completamente inadatto allo scopo. Serve inoltre una strategia nazionale unica che superi il groviglio di regionalismi e frammentarietà. La sfida delle nuove politiche attive può essere affrontata solo ripartendo dalle luci e dalle ombre di Gol, valorizzando ancor di più la sinergia virtuosa tra pubblico e privato. Questa è l’occasione per finalmente programmare al meglio.”

E per concludere in bellezza, il nostro Imbalsamatore della Formazione tira fuori l’orgoglio nazionale:

“Le agenzie per il lavoro e le società di formazione sono da sempre in prima linea. Il nostro sistema è un modello riconosciuto a livello internazionale e, grazie ai fondi privati di Formatemp, ogni anno ben 400mila persone seguono percorsi formativi utili, con più di uno su tre che trova rapidamente un lavoro.”

Insomma, tra poco diventeremo tutti geni digitali, super-eco-sostenibili e occupati a vita. O almeno, è questo il sogno che si continua a raccontare a chi ancora crede nelle favole chiamate “politiche attive del lavoro”. Nel frattempo, la realtà resta quella di un’Italia divisa, con poche aziende in grado di fare davvero la differenza e una burocrazia formativa che ridefinisce l’arte di complicare l’esistente.

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