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Ex Ilva, il presidente di Federacciai tira fuori la verità che nessuno osa dire

Il piano di decarbonizzazione per l’ex Ilva presentato dal governo è definito “ambizioso”, ma più che accogliere con entusiasmo, gli industriali del settore sembrano fare i conti con una realtà ben più azzoppata. Il presidente di Federacciai, Antonio Gozzi, ha espresso tutti i suoi dubbi, ricordando che “per resuscitare un morto non si devono schiacciare i vivi”. Un monito con cui mette subito le carte in tavola dopo l’incontro tra il ministro delle Imprese, Adolfo Urso, e i principali protagonisti della siderurgia italiana.

Il progetto sbandierato prevede una transizione in 6-7 anni dal tradizionale altoforno verso forni elettrici alimentati da Dri (Direct Reduced Iron). Nel dettaglio, si parla di tre forni elettrici con un quarto possibile a Genova. Inutile dire però che la festa è rovinata da quella che sembra la vera variabile impazzita: l’accordo di programma, ancora un’incognita gigantesca sul destino degli impianti.

Il rischio più concreto? Se l’incontro con gli enti locali previsto per domani dovesse sfumare in un nulla di fatto, si potrebbe andare avanti con tre forni elettrici nella sede di Taranto, ma senza il Dri. A quel punto, prende corpo l’idea alternativa di Gioia Tauro, un “piano B” che il presidente Gozzi definisce tutt’altro che ottimale, visto che comporterebbe un enorme spreco di energia e un salto di qualità nei costi logistici. Ovvero: soluzioni da copione che nessuno ha realmente voglia di provare.

L’apprezzamento per la convocazione e il piano Urso – sì, qualcosa di buono bisogna pur dirlo – viene subito smorzato da una considerazione più ampia: questo progetto non può essere valutato a pezzi ma necessita di un’ottica di sistema più complessa e integrata, che tenga conto delle difficoltà della siderurgia italiana nel suo complesso.

Tradotto in parole povere da Gozzi: “Per non finire a danneggiare chi ancora produce bisogna puntare su investimenti massicci sul Dri e garantire agli impianti un’autosufficienza energetica non da poco, che nel piano stesso si traduce nella costruzione di una centrale elettrica nuova di zecca.” Insomma, un impegno titanico e decisamente costoso, quello che servirebbe per non lasciare tutto al caso e alla buona sorte.

Federacciai snocciola poi i numeri da capogiro che servono a capire l’ampiezza della sfida: circa 10 miliardi tra investimenti pubblici e privati, la cifra più ingente mai vista globalmente nel settore siderurgico. Un sforzo colossale tra Dri e forni elettrici, che però rischia di andare in fumo se non si riesce a congelare il prezzo del gas a livelli competitivi. Senza questo dettaglio, i nuovi impianti si troverebbero con un evidente handicap sul costo del prodotto finito rispetto alla concorrenza.

La situazione di Taranto, insomma, non è solo una partita industriale ma un vero e proprio campo minato, elemento chiave per un comparto non proprio in salute. Serve un approccio multilivello: da un lato nazionale, dall’altro europeo. In ballo ci sono questioni spinose come il sistema ETS (Emission Trading System), i progetti di economia circolare con l’idrogeno (Cibam) e soprattutto la tutela da una vera e propria invasione di prodotti asiatici low cost, oltre ai possibili effetti indiretti delle tariffe americane.

In conclusione, dietro le parole altisonanti e i grandi piani di decarbonizzazione, si nasconde un panorama che pare più un intricato gioco degli specchi e delle incognite. E tra promesse e realtà, a farne le spese potrebbero essere proprio quelli che dovrebbero essere rivitalizzati, mentre chi già lavora rischia solo di trovarsi ancora più spalle al muro.

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