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Iran in fiamme, l’energia crolla e i mercati piangono: benvenuti nel circo dell’economia in rovina

L’attacco militare di Israele all’Iran non è solo un altro capitolo tragico di una storia infinita, ma un autentico trauma per l’economia globale che già barcolla sotto il peso di conflitti, sanzioni e scelte politiche discutibili.

In un mondo dove la crisi umanitaria a Gaza e in Cisgiordania è ormai cronaca quotidiana e il conflitto in Ucraina continua a seminare caos, l’arrivo di questa nuova miccia in Medio Oriente alza vertiginosamente il livello di incertezza. Le istituzioni internazionali – dalla Banca centrale europea al Fondo monetario internazionale e al Banca Mondiale – si ritrovano così a dover decifrare e arginare danni che diventano sempre più difficili da misurare e contenere.

È curioso come i mercati finanziari abbiano già recepito il messaggio di guerra mentre l’economia reale dovrà ancora fare i conti con una serie di ripercussioni che si sommeranno all’instabilità già in atto. Come se fosse poco, poi, c’è il piccante effetto boomerang delle sanzioni, che di solito colpiscono il bersaglio, ma spesso riducono in pezzi anche chi le impone.

Nel caso dell’Iran, le sanzioni si dimostrano uno strumento inadeguato a fermare la spirale di violenza e conflitto. Per Israele, invece, l’unica “punizione” ufficiale finora è stata l’esclusione personale di due ministri di spicco (Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich) dalle liste nere di alcuni Paesi occidentali, quasi come se fosse un ripensamento discreto e beneducato. Ma non illudiamoci: questa “modestia” bellica ha l’effetto di un pugno di piume.

Tre conseguenze da non sottovalutare

Passiamo ai fatti: quali sono le vere ripercussioni economiche dell’escalation tra Israele e Iran? Semplificando brutalmente, ne troviamo tre. Primo, il rincaro impietoso dell’energia; secondo, la frenata nell’export; terzo, il caos sulle catene di approvvigionamento, un termine elegante per dire “problemi inguaribili nella logistica”.

Il primo punto merita particolare attenzione: nonostante gli sforzi – tutto sommato lodevoli – per ridurre la dipendenza energetica dalla Russia, l’Italia si ritrova a scommettere sempre di più sul Medio Oriente. Quasi un terzo delle forniture di gas e petrolio proviene proprio da quella regione già in fiamme.

Il risultato? L’aumento vertiginoso del prezzo del petrolio, che si propaga immediatamente come un contagio inarrestabile all’inflazione e ai costi di produzione. E non è finita qui, visto che il panorama politico di alternative probabili – guardiamo ad alcuni Paesi africani – è tutt’altro che stabile.

Dalla prospettiva delle imprese italiane coinvolte nel commercio con Israele e il Medio Oriente, ci si prepara a una battaglia tra incrementi di costo e domanda in calo. Spedizioni più care, assicurazioni più costose e clienti più riluttanti: questo è il quadro.

E se la parola “logistica” vi sembra astrusa, basta guardare alle rotte commerciali globali, già martoriate; la guerra in Ucraina ha lasciato il segno, ma anche le tensioni nel Mar Rosso, con gli attacchi ai cargo degli Houthi – gli stessi che godono del sostegno iraniano – sono un monito poco rassicurante.

Ora, con i bombardamenti di Israele, tutto lascia pensare che l’instabilità nella regione non solo non diminuisca, ma potrebbe tranquillamente esplodere di nuovo, portandoci con sé ancora più danni economici, sociali e politici. Complimenti a chi continua a credere che le tensioni geopolitiche siano solo “un problema lontano”.

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