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Quando anche i giganti come Starbucks e Decathlon si danno alla fuga dalla Cina: il mercato che scalpita e poi molla

Quando anche i giganti come Starbucks e Decathlon si danno alla fuga dalla Cina: il mercato che scalpita e poi molla
Economic Giants Prepare to Leave China as Local Rivals Bite Back

I grandi marchi occidentali stanno orchestrando un’uscita strategica dalla Cina, riscrivendo il copione di decenni di espansione nell’economia del Dragone.

La General Mills, proprietaria del celebre marchio di gelati premium Häagen-Dazs, sta valutando la vendita dei suoi oltre 250 punti vendita nel Paese. Nel frattempo, Starbucks esplora la possibilità di disinvestire dalla sua gigantesca rete che conta oltre 7.750 caffetterie in Cina. Non è da meno il colosso del retail sportivo Decathlon, impegnato a cedere circa il 30% della sua attività locale.

E qual è il catalizzatore di questa fuga? Ovviamente la “carine” concorrenza interna, con aziende cinesi che non solo hanno lanciato un assalto agguerrito e sofisticato ai marchi internazionali, ma hanno stretto un legame indissolubile con i consumatori locali. Non pensate che Apple o Nike possano godersi la luna di miele eterna: sono costrette a vedersela con giganti emergenti come Huawei Technologies, Xiaomi, Anta Sports Products e Li Ning, che strizzano l’occhio ai gusti e alle tendenze locali.

Il malessere economico post-Covid ha portato un’ondata di cambiamenti nelle abitudini di spesa: secondo Chen Jie, uno che di fusioni e acquisizioni in China International Capital se ne intende, i giganti stranieri si stanno scontrando con “rivali locali che hanno capito perfettamente cosa vogliono soprattutto i giovani: qualità al giusto prezzo e un tocco di emozione”. Morale? Se non metti in campo strategie localizzate, sei fuori.

D’altronde, non si tratta di pura teoria ma di pratica quotidiana: sia Häagen-Dazs che Starbucks hanno scomodato gelati speciali a base di mooncake per il Capodanno lunare e gusti surreali come il latte macchiato al sapore di maiale brasato (sì, avete letto bene).

Starbucks, messa sotto pressione dalla rapida ascesa di catene locali come Luckin Coffee, ha pure deciso di tagliare i prezzi in Cina per bevande a base di tè e Frappuccino, una mossa che stride nettamente con la sua strategia negli Stati Uniti, dove si celebra il minimalismo puntando su un menu semplificato concentrato sul caffè. Classico esempio di doppia faccia economica.

Ma l’adattamento non è solo prerogativa del caffè. Nel menu cinese di McDonald’s si trovano congee (una specie di porridge di riso) e hamburger con carne in scatola, mentre Yum China Holdings, che gestisce KFC e Pizza Hut, ha aggiunto alle sue proposte le crostatine all’uovo, i wrap in stile anatra alla pechinese e pizze con l’“affascinante” durian, ovviamente senza dimenticare i cavalli di battaglia più tradizionali.

Nonostante anni – anzi decenni – di esperienza sul campo cinese, i colossi internazionali sembrano avvertire la necessità di nuove alleanze per non sparire nel nulla.

Richard Wong, il signore delle fusioni e acquisizioni per l’Asia-Pacifico presso Morgan Stanley, non ha peli sulla lingua: “Molti di questi marchi vantano una lunga tradizione sul mercato cinese, e individuare partner cinesi capaci di portare competenze, tecnologia e capitali è diventata l’ultima frontiera della localizzazione. Nonostante tutto, le multinazionali non abbandonano la china – ops – Cina: la considerano ancora di grande importanza.”

Dunque, il Faraone del commercio globale deve sempre più piegarsi all’arte dello Yin e Yang: sopravvivere richiede non soltanto denaro e fama, ma una profonda capacità di aggirare i draghi – locali – che stanno conquistando il loro territorio pezzo dopo pezzo. Chi non si adegua, rimarrà con un palmo di naso e qualche gelato alla vaniglia invenduto in una terra che ormai fa da padrona a chi sa suonare la musica giusta.

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