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Quando il welfare si mette a fare il guru: le aziende aspirano a diventare comunità di fiducia (chissà come va a finire)

Il concetto di welfare non è più quello di una volta; sta attraversando un cambiamento radicale, e ironia della sorte, a guidarlo sono proprio le persone che dovrebbero beneficiarne. L’economista Luciano Canova offre una lettura illuminante di questa trasformazione, basata su un’indagine recente che esplora il futuro del welfare aziendale in Italia.
Secondo Canova, il benessere oggi non si riduce più al mero stipendio: ora è un “fiore a più petali” dove previdenza, salute e qualità della vita diventano imprescindibili. Ma attenzione, non stiamo parlando di un welfare che vuole soppiantare quello pubblico. No, le persone cercano qualcosa che lo completi, che lo completi davvero, non una scusa per scaricare responsabilità sul privato.
Ed ecco la chicca: l’Italia, patria per eccellenza della piccola e media impresa, si ritrova seduta su un’opportunità d’oro. Canova la definisce un “patto sociale” in cui datore di lavoro e lavoratori si ritrovano a costruire insieme fiducia, integrando servizi welfare per una qualità della vita più alta e una visione più completa dell’esistenza. Insomma, il datore di lavoro non è più solo quello che paga il salario, ma diventa un protagonista di un disegno sociale più ampio. Concetto affascinante, peccato che spesso resti più teoria che pratica.
Il nostro economista rilancia anche un’idea che suona un po’ come un’ostentazione di buon senso: l’”economia dell’ottimismo”. Una sorta di invito a riconoscere una realtà che è ben più complessa di grottesche semplificazioni. Canova sostiene che, sì, esistono problemi reali e allarmanti in sanità e previdenza, ma queste difficoltà aprono pure uno “spazio” – parola sua – per costruire fiducia tra impresa e lavoratori e progettare servizi di valore condiviso. Una visione che profuma di utopia, ma che è almeno un tentativo di non affondare nella solita retorica del pessimismo.
Un altro spunto interessante dell’indagine è l’aumento della consapevolezza economico-finanziaria da parte dei dipendenti. Lì dove una volta si stava a bocca aperta ad aspettare il buonuscita finale, ora si guarda al futuro con lungimiranza. Per Canova, questo cambiamento di mentalità sarebbe la chiave per costruire un welfare più umano, dove l’impresa non si limita a erogare stipendi ma diventa “parte di una comunità di valore”. Ah, la retorica delle comunità! Spesso suona bene, ma i fatti poi cosa dicono?
Infine, Canova invita a interpretare l’invecchiamento della popolazione non come una tragedia, ma come “un dato positivo”. Una popolazione che vive più a lungo significa più anni per godersi la vita, dicono. Da qui nasce la cosiddetta “Silver economy”, un mercato che esplode fra nuove richieste di benessere, cultura, viaggi e intrattenimento. Ed è proprio in questo scenario che il welfare aziendale moderno dovrebbe brillare, garantendo sicurezza, serenità e qualità della vita anche ben oltre i 50 o i 65 anni.
Ovviamente, tutto questo scenario dipende da una reale volontà delle imprese di diventare qualcosa di più di semplici pagatori di buste paga. E soprattutto, richiede che il welfare aziendale non sia solo un vezzo per pochi, ma qualcosa di strutturale e accessibile a molti. Ma in Italia, tra burocrazia, risparmio da quattro soldi e vecchie abitudini, l’interrogativo rimane: riusciremo mai a trasformare queste splendide parole in concretezza quotidiana?