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Quando la Ue si butta a picco e Wall Street fa il solletico ai licenziamenti: la danza tragica dei dazi e dei dati del lavoro

Gli Stati Uniti alzano la posta dei dazi e scatenano il pomeriggio nero delle borse europee, mentre Wall Street trema tra incertezze e polemiche.
Come se non fosse già abbastanza complicato, dal 7 agosto decine di paesi partner degli Stati Uniti si troveranno alle prese con dazi doganali peggiori di quanto si potesse immaginare: tariffe che spaziano tra il 15% e il 41%. Il Canada, ostinato e irriducibile, non è riuscito a strappare un accordo e si ritrova con un salasso del 35%, mentre l’Unione Europea si “accontenta” di una tariffa del 15%, con qualche flebile speranza di salvezza grazie a eventuali esenzioni su settori strategici e a sistemi di quote sugli acciai. Ovviamente, è tutto molto complicato e nessuno si aspetta una soluzione rapida da questo teatrino internazionale.
Eppure, in mezzo a questo polverone, arrivano notizie dal solito Oltreoceano: colossi come Amazon e Apple annunciano risultati finanziari addirittura migliori del previsto. Peccato che non basti a rassicurare gli investitori, che continuano a fuggire a gambe levate dalle piazze europee. I principali listini vanno tutti in rosso: Milano, Parigi, Francoforte, Madrid, Amsterdam e persino Londra – persino se ci si sforza, sembra difficile trovare un motivo per festeggiare.
Passando al fronte occupazionale, luglio porta qualche sorpresa meno allettante negli Stati Uniti. Sono appena 73.000 i posti di lavoro “non agricoli” creati, ben sotto le previsioni che ne indicavano almeno 100.000. Per carità, va riconosciuto che ormai è il 55° mese consecutivo con segno positivo, ma l’impennata promossa dagli annunci sembra proprio non scattare. Il tasso di disoccupazione inoltre si alza lievemente, dallo 4,1% al 4,2%, perfettamente in linea con quanto si era previsto, ma comunque un campanello d’allarme di questi tempi.
Non stupisce quindi la reazione stizzita di Wall Street, che vede i principali indici perdere colpi mentre prende corpo una nuova ondata di dazi. Giovedì scorso il presidente Donald Trump, nell’ennesima trovata per ribaltare gli equilibri commerciali mondiali, ha firmato la lista delle tariffe per quei paesi ancora senza accordi con Washington in vista del fatidico 1° agosto. Tariffe che spaziano da un dignitoso 10% a un premio al rialzo del 50%, e comprendono persino partner fondamentali come India e Taiwan. Il Canada, ormai “prigioniero” del 35%, inizia a pagar dazi immediatamente; tutti gli altri però, tanto per tenere la suspense, dovranno aspettare ancora una settimana, forse per permettere qualche trattativa di facciata.
Gli investitori, oltre a rosicchiare nervosamente le unghie, temono che questi dazi possano innescare un’inflazione incontrollata e complicare la già difficile situazione della politica monetaria: un premio in più per la Federal Reserve, che si mostra prudente e riluttante a tagliare tassi. Tra l’altro, il presidente Trump non perde occasione per infierire sul capo della Fed Jerome Powell, colpevole – secondo lui – di non aver fatto sufficientemente sconti per alimentare l’economia. Powell però, a differenza del tycoon, sa che manovrare i tassi mentre si combatte una guerra commerciale non è esattamente come una passeggiata al parco.
Nel mentre continua la stagione degli utili trimestrali, soprattutto nei giganti del tech: giovedì, al suono della campanella, ecco spuntare Apple e Amazon. Il primo ha superato le aspettative senza nemmeno sforzarsi troppo, mentre il secondo ha invece mancato il bersaglio nel suo business più remunerativo, il cloud computing. Insomma, se anche i colossi sono così altalenanti, non c’è da stupirsi se investitori e mercati sono più nervosi di un gatto in mezzo a cani da guardia.