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Quando l’Ue fa la pace con gli Stati Uniti e Trump fa scatenare il caos in India: davvero così semplice?

Stop alle contromisure Ue contro i dazi Usa per sei mesi, tra promesse e minacce che lasciano con un sorriso amaro

A partire da oggi e per i prossimi sei mesi, l’Unione europea alza bandiera bianca e sospende le contromisure contro i dazi voluti dall’incontentabile presidente degli Stati Uniti, Donald Trump. Ad annunciare questa tregua commerciale da manuale dell’ambiguità è stato Olof Gill, il portavoce della Commissione europea per il commercio, che ha spiegato, come se fosse una grande vittoria diplomatica, che l’Ue «continua a dialogare con gli Stati Uniti per finalizzare una dichiarazione congiunta». Tradotto: si sospendono le sanzioni che avrebbero dovuto entrare in vigore il 7 agosto, mentre la Commissione si arma di buona volontà (e procedure d’urgenza) per adottare la sospensione ufficiale il 5 agosto, cioè ieri.

Il 27 luglio, dice la versione ufficiale, la Presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen ha stretto una sorta di patto commerciale con Donald Trump che promette «stabilità e prevedibilità» per cittadini e aziende da entrambe le parti dell’Atlantico. Ma non scordiamoci che questa stabilità garantisce soprattutto l’accesso delle esportazioni Ue nel mercato statunitense, protegge le catene di valore integrate e, dulcis in fundo, salva milioni di posti di lavoro. Una filastrocca che suona tanto come un voler salvare la faccia mentre si inchina alle richieste di Washington, gettando le basi per quella che viene definita una «cooperazione strategica» continua, più che altro una convivenza forzata.

Non paga della pacificazione appena tracciata, il 31 luglio gli Stati Uniti rilanciano con un Decreto Esecutivo che conferma i primi passi dell’accordo: dall’8 agosto scatterà un dazio unico del 15% sulle merci europee. Più che un compromesso, questa novità rappresenta un ‘successo’ statunitense, visto che il dazio, pur ridotto rispetto a quello annunciato a inizio aprile, resta una bella batosta per l’Europa, considerando che include l’aliquota della “nazione più favorita”. Tradotto in soldoni: niente cumuli o eccezioni al di sopra del limite del 15%, quindi un bel tetto che lascia poco spazio a trattative più morbide.

L’Ue, naturalmente, si consola con la prospettiva che tutto questo servirà a «ripristinare la chiarezza per le aziende europee» nella difficile impresa di esportare negli Stati Uniti, perché c’era proprio bisogno di un dazio globale «semplificato» per capirsi meglio. C’è poi la parte più dolente dell’intesa ancora tutta da concretizzare sul terreno, come le promesse statunitensi di ridurre i dazi della Sezione 232 sulle automobili e componenti importati dall’Europa ad un tetto massimo del 15%, senza dimenticare il trattamento speciale riservato ad alcuni settori strategici come quello aeronautico. Tradotto: le trattative proseguiranno, fra sorrisi diplomatici e pugnalate dietro le quinte.

Intanto, mentre tutto questo giocattolo commerciale mediocre prosegue, il Presidente americano continua a sfoderare la sua arma preferita: la minaccia. Stavolta è l’India l’oggetto della sua ira, colpevole a suo dire di «shopping» petrolifero dalla Russia. Bravo! Proprio in un mondo in cui gli equilibri energetici si muovono come un flipper impazzito, Trump decide di alzare la voce contro Nuova Delhi minacciando cifre da capogiro in dazi sull’import indiano. Perché, in fondo, chi non si piega alla linea statunitense deve essere punito senza pietà.

Ricapitolando, assistiamo ancora una volta a una sfilata di promesse, sospensioni temporanee, accordi politici dal sapore zuccherino e minacce che sembrano provenire da un copione tanto vecchio quanto stucchevole. Dietro tutto questo resta la verità di un commercio globale che si fa sempre più un gioco di potere in cui la cooperazione passa in secondo piano rispetto all’imposizione di volontà, perché, alla fine, chi ha il coltello dalla parte del manico detta legge e l’Unione Europea, con sommo dispiacere, deve solo prendere atto che qualche briciola di autonomia è ancora un miraggio.

India e Stati Uniti. L’onnipotente America, sempre così preoccupata per diritti umani e commerciali, tira fuori l’ennesima trovata geniale: aumentare i dazi contro Nuova Delhi, accusata di non piangere abbastanza per le vittime in Ucraina e di continuare a fare affari con la Russia, colpevole di aver scatenato un bel macello nel febbraio di tre anni fa.

Ah, l’ironia è che Trump, quel simpatico tycoon noto per le sue politiche “chiare e precise”, si è dichiarato pure amico dell’India. Una vera amicizia alla luce del sole, che però si traduce in una pioggia di tariffe aumentate al 25% su prodotti indiani dal primo agosto, perché evidentemente l’amicizia ha un prezzo, soprattutto se l’amico non si inginocchia davanti al commercio statunitense.

Trump ci regala ulteriori chicche annunciando una “penalità” non meglio definita, giusto per tenere tutti sulle spine. Sarà per l’acquisto di armi o di energia dalla Russia? Chissà. Nel frattempo, il plano si allarga il 7 agosto con nuovi dazi applicati a decine di Paesi, perché non c’è niente di meglio che far arrabbiare gli alleati e i partner commerciali contemporaneamente.

La reazione dell’India? Come direbbe un vecchio saggio sarcastico: “ma va’”. Invece il portavoce del ministero degli Esteri indiano, Randhir Jaiswal, ha usato toni da diplomatico modello, bollando tutto come “ingiustificato e irragionevole”. Ecco, chiaramente, l’India non resterà con le mani in mano, pronta a usare ogni mezzo per proteggere i suoi interessi nazionali — termine elegante per dire “arrangiatevi dall’altra parte”.

Quindi, in sintesi, abbiamo una superpotenza che impone dazi e accuse a un gigante emergente che cerca di navigare tra guerre, affari e diplomazia con la grazia di un elefante in una cristalleria. E mentre le vittime del conflitto si accumulano, ci si preoccupa soprattutto delle tariffe. Che progressismo.

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