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Sovraccosti di spedizione possono raggiungere i 52 miliardi di dollari

Una cifra stratosferica: 52 miliardi di dollari di sovraccosti per lo shipping. È un colpo al cuore per l’industria marittima italiana, eppure queste conclusioni arrivano dall’analisi del Centro Studi di Confitarma, che si è sentito in dovere di rispondere all’indagine dell’Office of the United States Trade Representative (USTR) sulle politiche commerciali cinesi. Ma chi lo avrebbe mai detto che una disputa tariffaria potesse pesare così tanto sulle spalle di un settore già in affanno? Le misure proposte dall’USTR prevedono dazi fino a 1,5 milioni di dollari per ogni scalo negli Stati Uniti di navi costruite in Cina o gestite da operatori legati a cantieri cinesi. Facile a dirsi, difficile a farsi.

Ma chi paga il prezzo reale?

Riflessioni approfondite sulla competitività dell’industria marittima e manifatturiera europea? Ma certo! La realtà è che, mentre gli Stati Uniti si ergono come partner strategici, l’Italia rischia di ritrovarsi con le mani vuote e un mare di problemi. Con oltre 63 miliardi di euro di esportazioni verso gli USA, e con la stragrande maggioranza di questi scambi che viaggia via mare, la vulnerabilità è evidente. La dipendenza è palpabile: quasi il 100% delle esportazioni e il 98,2% delle importazioni italiane verso e da gli Stati Uniti viaggiano via mare. E chi pensava che la rotta marittima fosse una passeggiata si ricreda rapidamente.

Dove sono le soluzioni?

Il report mette in evidenza che oltre il 17% della flotta italiana viene costruita in Cina, e la quota sale all’ 84% considerando solo le nuove costruzioni ordinate e da consegnare entro il 2028. Si parla di navi da carico, traghetti, chimichiere e petroliere. Ma in che modo queste statistiche possono rassicurare i consumatori, siano essi americani o europei, quando i rischi si moltiplicano e i prezzi salgono? Si preannunciano potenziali ripercussioni dure, se non catastrofiche.

Eppure, esistono alternative?

Cosa fare dunque? Potrebbe essere opportuno guardare a paesi come Germania o Giappone, che sembrano avere trovato un certo equilibrio tra commercio e diplomazia, mentre noi ci limitiamo a subire i dazi americani come una punizione per scelte altrui. E i tentativi di riforma? Già, quelle promesse di trasparenza e sostegno destinati a dissolversi nell’aria come nebbia mattutina. Possibili soluzioni si fanno strada nella vaghezza. Magari un intervento dello Stato, un rinnovato impegno verso l’innovazione? O forse, più semplicemente, sperare in un colpo di fortuna? Ma la storia ci insegna che questo genere di speranza è raramente premiato.

Nel complesso, il quadro è desolante. Lasciando da parte i discorsi di economia e strategia, ci resta solo una domanda: cosa faremo mentre il mondo del commercio si evolve e noi rimaniamo paralizzati dall’incertezza? La risposta è chiara: niente, o quasi. E così, tra le onde del mare, rischiamo di affondare, incapaci di trovare una rotta sicura. E per chi si aspettava un futuro luminoso, beh, può già prepararsi a una bella delusione.

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