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Lombard Odier svela il vero incubo dei mercati: la fantomatica indipendenza della Fed messa sotto accusa
In un mondo che sembra avvitarsi sempre più sulle sue contraddizioni, Michael Strobaek, capo degli investimenti globali di Lombard Odier, ci regala un ritratto tragicomico della situazione finanziaria attuale: niente panico, ma nemmeno il solito noioso sentiero dritto e comodo per i mercati. No, stavolta si parla di imboccare una “via di montagna” piena di curve insidiose, pronti a scivolare giù in un burrone – metafora colorita, ma per nulla esagerata.
Tranquilli però, le azioni restano la stella polare, specie quelle dei cosiddetti mercati emergenti che, come sempre, promettono scintille. Più affetto anche per obbligazioni emergenti in valuta forte e titoli corporate investment grade, ma le amate obbligazioni sovrane dei mercati sviluppati, beh, quelle meritano ora un po’ di sana diffidenza… Insomma, il messaggio è: fate pure, ma con il freno a mano tirato quando si parla dei giganti del debito pubblico.
Le paure sull’obbligazionario e il sacro ruolo della Fed
Gli investitori tremano guardando ai rendimenti a lungo termine, con il terrore delle finanze pubbliche che ballano sul filo del rasoio. Strobaek, però, ci avverte: “Paura sì, esagerazione no”. Lamentarsi sulla tenuta delle finanze pubbliche è legittimo, ma ammettiamolo, stiamo montando un thriller che forse ha troppe scene rallentate.
Strobaek ci rassicura che gli Stati Uniti e il pianeta riusciranno a evitare la temuta recessione, perché il mercato del lavoro americano sembra ancora un palcoscenico solido dove i consumi, quell’abitudine così comoda, continueranno a far capolino, aiutati da quelle simpatiche banche centrali che, bontà loro, manterranno tassi più bassi per alimentare la crescita.
Certo, però, la pietra miliare incontestabile rimane la temutissima Federal Reserve. Qui il quadro si complica. Non osate toccarla, perché dove la Fed mantiene la sua indipendenza si nasconde l’ultimo baluardo della sanità finanziaria. Ma attenzione: l’ombra di Donald Trump riesce a far tremare persino le porte blindate di Washington.
Strobaek non risparmia un avvertimento da manuale: “Se Trump dovesse continuare a mettere in discussione il presidente Jerome Powell o, ancor peggio, piazzare una pedina del governo a capo della Fed, sarebbe un disastro annunciato per i mercati.”
Parole pesanti, ma giustificate da una storia recente a dir poco tumultuosa, dove i banchieri di Washington si sono eretti a salvatori dell’ordine finanziario: dalla crisi del 2007-2008, al quantitative easing, fino alla pandemia. Insomma, i veri paladini di un sistema che senza la loro mano esperta rischierebbe il colpo di grazia.
È vero, Trump non è certo il primo a criticare la Fed, ma questa volta sembra più deciso e sistemico. Non si ferma alle critiche facili, ma punta a una conquista istituzionale globale, tentando di mettere le mani non solo sulla politica monetaria, ma su tutte le istituzioni chiave.
La domanda sorge spontanea: con un presidente così “interessato” a mettere il timone della banca centrale in mano ai suoi uomini, chi proteggerà ancora l’indipendenza presunta sacra della Fed? E se la via di montagna si trasformerà in una discesa rovinosa, chi avrà applaudito fino all’ultimo?
Donald Trump, il cui talento nel fare passi falsi è stato persino battezzato con l’acronimo degenerato “Taco” – ovvero “Trump Always Chicken Out,” il cui significato è semplicemente “Trump che scappa sempre”. Fantastico, no?
In questo episodio forse troppo ripetuto, l’ex presidente sembra ossessionato da un solo, semplice sogno: tassi di interesse a breve termine più bassi per spingere l’economia in vista delle elezioni di mid-term. Come se manipolare la realtà fosse un gioco da ragazzi, ignora il piccolo dettaglio che la sua stessa politica sui dazi rappresenta un macigno gigantesco messo proprio davanti alla ruota dell’economia che vorrebbe far girare più veloce.
È come voler guidare una Ferrari fissando il volante con del nastro adesivo: idee raffinate, davvero.
Il capolavoro dell’autolesionismo economico
La ciliegina sulla torta? Questo modo di fare rischia di generare esattamente l’effetto opposto a quello sperato. L’esperto Strobaek suggerisce brillantemente – con una saggezza quasi disarmante – che questa tattica potrebbe aumentare i tassi a lungo termine. Come? Beh, semplicemente innalzando il premio al rischio necessario per investire nei Treasury americani, una manna per chi ama complicare le cose. E se tutto questo non bastasse, il dollaro si indebolirebbe ancora di più, entrando in un cortocircuito da manuale.
In pratica, un copione già visto lo scorso 2 aprile, dopo il “Liberation Day” (ma potete dimenticarvi del romanticismo: non berremo champagne, solo amari sorsi di realtà), dove i movimenti di mercato potrebbero essere meno “flash”, ma molto più persistenti e rovinose quanto basta per glissare su ogni illusione.
E non è finita qui: un ulteriore deprezzamento del dollaro – diciamo un 10 o 15% – sarebbe come suonare l’allarme massivo. Non per quei soliti sospettati chiamati paesi emergenti, ma direttamente per gli Stati Uniti, che vedrebbero crollare il loro status di rifugio sicuro. Un titolo che vantavano da tempo immemore, ormai più vulnerabile di un castello di sabbia durante l’alta marea.
E che dire del resto del mondo? Immaginate un domino in cui non cade un semplice mattoncino, ma l’intero muro di certezze economiche costruite sull’illusione della stabilità americana. Ridicolo, vero? Ma purtroppo è così.